
Eppure
vediamo in noi e intorno a noi tanta fatica ad entrare in questa logica, in apparenza
semplice e bella, dunque amabile e desiderabile. Forse una risposta la troviamo
nella Prima lettura. Quando Dio dice che sarà Lui stesso ad andare in cerca del
figlio perduto, a curarlo, fasciare le sue ferite, lenire le sue lacrime. Se
non ci siamo mai sentiti figli, se non ci siamo aperti a Lui perché si prendesse cura di noi, se non abbiamo spalancato la nostra anima alla sua misericordia,
allora rischiamo di avere di Lui un’immagine distorta. Non avendone fatto
esperienza, lo consideriamo responsabile dei nostri mali. Non ci fidiamo e
dunque non amiamo.
Maria,
modello del credente, ci sta davanti proprio come esempio della persona che si
è fidata e affidata. Ha riconosciuto la propria piccolezza, il bisogno di Dio e
si è affidata a Lui, si è messa totalmente nelle sue mani. Si è lasciata
curare, amare, riempire della sua tenerezza. E così ha trovato la motivazione
più vera per fare altrettanto. Affidarci a lei ci fa entrare in questa dinamica
di felice dipendenza da Dio. Ci fa sperimentare la gioia di essere curati e
leniti nelle nostre piccole o grandi piaghe interiori, ci fa assaporare nel silenzio
di un intimo colloquio la verità del suo amore, ci pone dei segnali sul cammino
perché non ci perdiamo. Così questa fiducia e questo amore ricevuti si
esprimono in gesti concreti di accoglienza dell’altro, così com’è e come si
sente. E nella misura in cui porteremo con noi la memoria viva della
misericordia ricevuta, imprimeremo nei nostri gesti più amore, più attenzione e
più vicinanza. Sarà lo Spirito stesso a farlo in noi. Sì, c’è tanta misericordia
da donare, ne siamo consapevoli, ma c’è prima tanta misericordia da riconoscere
e da accogliere. Se non ho fatto l’esperienza di sentirmi debole pecorella
malandata che viene raggiunta dall’amore e salvata, difficilmente sarò in grado
di andare oltre me stesso e accorgermi di chi mi passa accanto.